L’auto-consapevolezza o consapevolezza di sé è la capacità di comprendere chi siamo, come ci comportiamo e come influenziamo gli altri ed è una delle abilità fondamentali che compongono l’intelligenza emotiva. Se coltivata supporta la crescita personale e migliora l’autostima.
Cosa significa autoconsapevolezza?
In modo più specifico, nell’ambito dell’intelligenza emotiva l’auto-consapevolezza è la capacità di riconoscere e comprendere le proprie emozioni, il modo in cui esse influenzano i nostri pensieri e comportamenti e che impatto esse hanno sugli altri.
Daniel Goleman, uno dei principali studiosi di questo campo, ha definito la consapevolezza di sé come la capacità di essere consapevoli dei propri stati emotivi e di usarli per prendere decisioni più informate e adattive.
Il modello dello schema di Johari – o Johary window – offre uno strumento alla portata di tutti per comprendere e ampliare la nostra consapevolezza. In più, ci aiuta a prendere decisioni più lucide e costruttive.
Finestra di Johari, un modello psicologico che ci parla di noi
Nato negli anni ’50 grazie agli psicologi Joseph Luft e Harry Ingham (per questo JoHary), la finestra o schema di Johari è stata pensata per migliorare le relazioni all’interno dei gruppi e facilitare la comunicazione. Il modello viene oggi utilizzato anche nei percorsi di crescita personale, coaching e psicoterapia.
L’idea alla base di questo modello psicologico è che ci sono aspetti del nostro essere che conosciamo bene, altri che ci sono sconosciuti e altri ancora che solo gli altri riescono a vedere. È attraverso l’incontro con gli altri, quindi, che possiamo espandere la conoscenza di noi stessi.
Lo schema di Johari: una mappa per l’auto-consapevolezza
Lo schema di Johari suddivide la nostra consapevolezza in 4 quadranti.

- Pubblico o Arena Pubblica: racchiude ciò che sia noi che gli altri conosciamo di noi stessi: il colore degli occhi e dei capelli, i vestiti che indossiamo, il modo in cui stiamo in piedi, il modo in cui parliamo. Sono le informazioni che condividiamo di noi stessi quando stiamo in mezzo agli altri.
- Privato: rappresenta gli aspetti che conosciamo di noi stessi ma che scegliamo di non rivelare. È nascosto agli altri e rimane privato fino a quando non decidi di condividerlo. In questa area, per esempio, ci possono essere informazioni come ciò che abbiamo studiato a scuola, la nostra infanzia, la vita privata, la famiglia e gli amici. Potrebbe trattarsi di qualcosa che semplicemente non vogliamo condividere. Se vogliamo mantenere queste informazioni nascoste e sconosciute agli altri è una nostra scelta. Se decidiamo di condividerle, passano dall’essere private all’essere pubbliche.
- Punto Cieco: è l’area che racchiude le informazioni che gli altri conoscono di noi ma di cui siamo inconsapevoli. Possono includere, per esempio, i nostri difetti, i segnali non verbali, delle abitudini di cui non ci rendiamo conto oppure dei nostri talenti che ignoriamo.
- Ignoto: racchiude le parti di noi ancora inesplorate, sia da noi che dagli altri. Può contenere, per esempio, parti inespresse della nostra personalità, potenzialità latenti oppure traumi rimossi.
Espandere l’Arena pubblica favorisce una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie dinamiche. Di conseguenza, questo modello psicologico ci invita a portare un po’ di luce nei quadranti a noi meno accessibili per aumentare la consapevolezza che abbiamo di noi stessi. Possiamo farlo, in particolare, attraverso due ottimi strumenti:
- l’autorivelazione;
- il feedback.
Auto-rivelarsi: mostrarsi con coraggio
Uno dei modi per ampliare la nostra arena pubblica è l’auto-rivelazione. Ma facciamo chiarezza: non si tratta di raccontare tutto a tutti, né di mettere in piazza la propria vita.
Auto-rivelarsi è un atto intenzionale, in cui scegliamo consapevolmente di condividere qualcosa di noi.
E sì, richiede coraggio. Perché significa aprirsi al giudizio, mostrarsi vulnerabili, e a volte mettere in discussione l’immagine di noi stessi che cerchiamo di proteggere.
Secondo Carl Rogers, psicologo umanista, la possibilità di essere autentici nelle relazioni è una condizione fondamentale per il benessere psicologico. Quando riusciamo a dire , per esempio, “mi sento in difficoltà”, oppure “non sono sicuro di questo”, ci spogliamo della nostra maschera e lasciamo spazio a un incontro vero.
Auto-rivelarsi, però, è anche un atto di responsabilità. Può aiutarci a evitare fraintendimenti, a creare connessioni più profonde e a uscire dall’isolamento emotivo.
Per esempio, una manager che condivide con il suo team l’ansia legata a un momento di incertezza, senza perdere la leadership, trasmette autenticità. Oppure, un partner che ammette di avere bisogno di sentirsi rassicurato rafforza il legame.
Come ci si auto-rivela in modo corretto, quindi? Con delicatezza, senza forzature. Scegliendo i momenti giusti, le persone giuste, e usando un linguaggio che non accusa, ma che parla di sé. “Quando non ricevo risposta ai messaggi, mi sento trascurato”, infatti, ha un peso molto diverso da “Tu non ti fai mai sentire”.
Imparare ad accogliere il feedback
L’altro elemento chiave del modello di Johari è il feedback. Chiedere agli altri cosa vedono in noi – e ascoltarlo davvero – è forse una delle pratiche più trasformative che possiamo attivare. Ma è anche una delle più scomode.
Ricevere un feedback ci espone. Può attivare difese, suscitarci fastidio o disorientamento. Ma, come sottolinea Daniel Goleman, autore di riferimento sull’intelligenza emotiva, la capacità di ricevere feedback costruttivi è una competenza centrale per migliorare le relazioni e sviluppare leadership autentiche.
Per rendere questa esperienza utile, è utile imparare a fare domande aperte (“C’è qualcosa che potrei fare diversamente?”), oppure ad ascoltare senza interrompere e riflettere prima di rispondere. Il punto non è “aver ragione” ma capire cosa gli altri vedono che forse a noi sfugge. Anche il silenzio che segue un feedback può insegnare.
Al contempo, dobbiamo anche tenere a mente che accogliere un punto di vista non significa accettarlo ciecamente. È uno stimolo da elaborare, non un verdetto. Ma se lo evitiamo del tutto, restiamo intrappolati nelle nostre percezioni parziali.
I facilitatori del cambiamento: i 5 archetipi di Luft
L’esplorazione di sé, come abbiamo visto, non è mai un atto puramente individuale. Avviene nell’ambito delle relazioni. Ed è proprio in questo spazio relazionale che Joseph Luft, nel suo libro Of Human Interaction, propone 5 figure simboliche, che chiama “facilitatori”: tipi umani o atteggiamenti archetipici che possono agevolare il passaggio da un quadrante all’altro della finestra di Johari.
Questi 5 facilitatori sono presenti in molti contesti, anche in forme ibride. Talvolta li incontriamo negli altri, altre volte impariamo a riconoscerli dentro di noi. Ognuno ha un suo stile di influenza, un modo diverso di attivare riflessioni, cambiamenti e prese di coscienza.
Sono, in particolare:
- lo sciamano;
- il mistico;
- il naturalista;
- il sacerdote;
- il mago.
Lo Sciamano

Lo sciamano è colui che ha accesso al mistero. Opera nelle profondità, nei simboli, nei sogni, nel linguaggio del corpo e delle emozioni.
È il facilitatore che guida le persone verso l’area ignota utilizzando intuizioni, metafore e rituali. Nella vita reale, può essere il terapeuta che ci pone una domanda inaspettata, il coach che ci fa visualizzare una scena interiore, o anche un amico che ci racconta qualcosa su di noi in modo poetico ma preciso.
Lo sciamano non forza: prepara il terreno affinché ciò che è nascosto emerga con delicatezza.
Il Mistico
Il mistico rappresenta la sospensione del giudizio e l’apertura all’invisibile. È colui che, più che facilitare attivamente, crea uno spazio in cui il silenzio, la contemplazione e l’auto-osservazione diventano potenti strumenti di conoscenza.
In un contesto lavorativo, può essere quella persona che con la sua sola presenza calma, con uno sguardo o con una parola misurata, fa emergere nuove consapevolezze nel gruppo.
Il mistico non ci dice “cosa” vedere, ma ci aiuta a vedere. Ha una profonda connessione con l’invisibile che dimora in ognuno di noi.
Il Naturalista

Il naturalista facilita attraverso l’esperienza diretta, la connessione con la realtà concreta e osservabile. Porta l’attenzione ai fatti, ai comportamenti, alle reazioni visibili.
È spesso colui che aiuta a esplorare l’arena pubblica e a rendere visibile ciò che è cieco.
Per esempio, un collega che ci dà un feedback onesto, con chiarezza e rispetto, attiva in noi una riflessione concreta: “Non ti rendi conto, ma quando fai così, gli altri si chiudono”. Il naturalista è pragmatico, ma profondamente utile: traduce l’invisibile in segnali osservabili.
Il Sacerdote
Il sacerdote è il facilitatore del valore, della coerenza e del significato. È colui che ci aiuta a rileggere la nostra storia alla luce dei valori che ci guidano.
Aiuta a collegare i diversi quadranti della finestra di Johari con il senso più profondo del nostro essere. Spesso lo troviamo nei ruoli educativi o ispiratori: un formatore, un mentore, un genitore che non si limita a dirci “come” ma ci ricorda il “perché”.
Il sacerdote è importante per integrare ciò che scopriamo dentro di noi con un percorso di significato. Aiuta a tenere insieme le parti.
Il Mago

Il mago è la figura più dinamica: muove, provoca, rompe gli schemi. È colui che attiva trasformazioni improvvise, spesso scomode, ma necessarie.
Può emergere in chi ci sfida, chi ci costringe a vedere ciò che stiamo evitando, chi smaschera le nostre contraddizioni.
È il manager che ci affida un compito che ci spaventa perché “sa” che possiamo farcela, anche se noi ancora non lo vediamo. Il mago apre l’area ignota con scosse. Ma se siamo pronti, quelle scosse diventano risvegli.